mercoledì 28 aprile 2010

Ma saison


"Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s'ouvraient tous le coeurs [...] Une soir, j'ai assis la Beauté sur mes genoux- Et je l'ai trouvée amère.- Et je l'ai injuriée. Je me suis armé contre la justice."


"...E Come ti sembrerà strano, quando non ci sarò più, ciò che hai passato. Quando non avrai più le mie braccia sotto il collo, nè il mio cuore per il tuo riposo, nè questa bocca sui tuoi occhi. Perché bisognerà che me ne vada, molto lontano, un giorno. E poi, bisogna che ne aiuti altri: è mio dovere."



(A. Rimbaud, Une saison en enfer)



Che abbia inizio la mia stagione, che abbi inizio qui, tra poco.

E basta, basta poesia.

domenica 11 aprile 2010

Esse est percipi


Vivere

Esistere


Muoversi, imporsi, urlare

Fermarsi, tacere, ascoltare


Immergersi nel turbinare di ciò accade


Aspettare, aspettare, aspettare.


Vivere è l'unire il sé all'altro, a ciò che, da fuori, potrebbe apparire "meglio": voci, colori, gesti, grida, risate, eventi. Un migliaio di vite colorate, unite a cercare di essere qualcosa: non la solitudine di una stanza, ma l'illusione di partecipare di un senso collettivo.



Esistere è comprendere l'importanza del sè: fermarsi a raccogliere ogni singolo respiro, metterlo in ordine dopo gli altri, imparare ad ascoltare ogni impercettibile rumore del corpo, a percepire ogni minimo movimento ed ogni sua conseguenza.


Vivere è turbinìo incessante di voci, parole, urla: concetti chiusi a vuoto, parole stese ad asciugare, illusioni di un Dio che non si muove, volontà di non comprendere, sfuggendo al sè che preme. Confusione, discorsi, moltitudine, mani, occhi, illusioni: nolontà, fuggire da sè stessi, immergendosi e così, nel nulla, confondendosi nel marasma: non essere sè stessi, averne paura sino al punto di rifiutarsi.


Esistere è raccoglimento in sè, silenzio, ogni singolo gesto che riacquista un senso: lo scorrere delle mani sulle pagine, il frusciare delle dita sui capelli, il respiro finalmente sentito e partecipato. La solitudine reale di una stanza vuota, una coperta stesa a mezza altezza: esistenza, piena, corporea.



Recede in te ipse: essere fondo a sè stessi, comprendersi, ri-prendersi, percepirsi e, solo così, essere.


Vivere è finto, illusorio, in bilico.


Esistere è reale, unico modo per non perdersi: percepirsi, percepire il sè, reale, corporeo ed, insieme, spirituale. L'unico vero.

domenica 4 aprile 2010

Ad ogni partenza un ritorno (IV)



Gli spietati salgono
sul treno e non ritornano
mai più, non sono come noi
falliti antichi eroi,
noi due che al binario salutiamo…

(Baustelle- Gli spietati)


Come abbiamo potuto non sapere, per così tanto tempo, nulla di ciò che era, e tuttavia sederci alla tavola di ogni cosa e persona incontrata sul cammino?

(A. Baricco, Emmaus)



Che stupido ragazzo, pensò. Già, ragazzo: tanto tempo prima, si faceva chiamare così. Ma era una vita fa: non proprio mesi, nemmeno un anno. Ma dentro, sì. Galassie, universi, reami di tempi e di fatti si erano affastellati nella sua testa, sino quasi a scoppiare senza lasciare tregua. Era stato "il" ragazzo: lui, perso dentro la Città, al caldo, al riparo dal male del mondo, rifugiato negli occhi di chi, nei gesti a metà che parevano pur simili a qualcosa di altro. Aveva sentito tutto ciò su di sè, dentro sè: per sè. Si era impossessato della vita, e, in pieno furor, l'aveva trascinata con sè a ballare sulle stelle.
Ma era bastato poco per capire che nulla, nulla, era mai stato come lui aveva pensato:

"Quegli occhi non c'erano, non eran per lui, le mani tese a cercare altri intrecci, le parole lanciate, ma non per raccoglier sussurri e promesse. Diverso: si era seduto all'incrocio di vite, aveva atteso speranze tradite, erano state illusioni proibite. Ma era stato albeggiare impaurito, solamente una stupida aurora ingiallita."

Era caduto, piombato: si trovava ormai solo, con il sé come unico amico. E non eran più cieli azzurri: li vedeva lontani, ormai muoversi senza un motivo, verso porti più cari e sicuri all'altrui sentimento.

[...]

Pochi passi, lenti: una direzione precisa, in quel girovagare, non era possibile trovarla. Scontrava volti, braccia, gambe, palazzi ed alte costruzioni che salivano su, dritte fino al cielo. Per tanto tempo aveva lasciato quelle cose sullo sfondo, considerandole alla stregua di semplice contorno del vivere: solo allora, in quel momento, iniziava ad osservarle con occhio più lucido ed attento. E, proprio allora, esse iniziarono ad apparire sotto una luce diversa: esistevano, palpitavano, partecipavano di quel mondo che, fino a pochi attimi prima, non sembrava nemmeno rientrare nei suoi pensieri.
Si fermò, lungo la via che attraversava il centro: mesi prima sarebbe stata solo una semplice via, simile, anzi uguale, a tutte le altre vie già incontrate in chissà quanti paesi, stranieri e non. Ma ora non più: il mondo, sì, doveva per forza essere il mondo quello che assaporava sulla propria pelle. Non ci aveva mai fatto caso: eppure, era sempre stato lì, lo aveva attorniato, sfiorato, cullato. Da sempre.
E lui aveva corso, ansimato, pensato, parlato, riso, gioito, pianto, disperato. Senza mai sapere di esser stato, da sempre, al centro di quel Tutto.

[...]

C'è un amore che mi lacera la carne, ed ancora tu lo sai.(*)


(*) Baustelle, Gli spietati