domenica 28 novembre 2010

Quel pomeriggio del folle volo


Quanti eravamo durante il volo,
quel pomeriggio di incontri erranti?
Ma due, soltanto, presero il blu:
fu cielo azzurro, e nulla più.

Ci frantumammo uno sull'altra
ci sparpagliammo da dentro l'anima
la mescolanza fu dolce, attesa,
di breve inerzia da non gestire.

Ma via volammo,
schiantammo a terra quel cielo azzurro.
E non rimase più amore alcuno
a consolare l'addio perpetuo.

E ancora, sai, vorrei tenerti
bloccare il tempo e consolare le tue preghiere
le blasfemìe del tuo restare

Tenerti intorno,
mostrarti al mondo come un araldo
come splendente amor leggero.

Lo so, sorpresa mi guarderesti.
Imploreresti.
«Tu non lasciare quel mio calore,
rimani stretto, da qui, sul cuore.»

Ma lo sa il cielo quanti eravamo
quel pomeriggio del folle volo:
ci superammo, non ci vedemmo.
Tra mille andare, dimenticammo.

Non mi rimane, su questo freddo,
che un po' fluire,
sgorgando, sterile, quell'acqua fredda
che gonfia e sfoga su carne muta.

Rimango qui, raccolgo i pezzi,
i vetri rotti del frantumarsi
del fragorìo del non amare.

E tu, da sopra quella pelle,
da quanto è ancora da inesplorare,
rimani stretta:
dovesse un giorno, per puro caso,
tornare il cielo da sorvolare.

martedì 21 settembre 2010

Senza un sé da ricordare (III)


Tragedia inconclusa in troppi atti


Atto terzo


Arrivò un po' trafelato, come al solito in ritardo: il pubblico in sala rumoreggiava da tempo, invocando a gran voce l'inizio del dramma. Ma la scena era vuota, e lo sarebbe stata per molto tempo ancora. Attraversò di corsa il corridoio, dietro le quinte, per cercare di guadagnare minuti preziosi; Iscanò era in camerino, a cercare di celare, come al solito, il volto dietro la sua maschera di cerone...



Iscanò: «Entra! Vieni dentro! Cambiati qui con me, che siamo già in ritardo! Allora, come ci si sente ad essere una stella? Riesci ancora a riconoscere i loro volti dal palcoscenico?»

Patavù: «Beh, ecco, insomma: non che lo voglia, non che lo cerchi, ma, vedi, sono lì, tutti, battono freneticamente le mani, appoggiano le loro schiene da medio-borghesi su quella porpora, ululano, strepitano, protestano...»

Iscanò: «Ma è questo quello che devi dare loro: ti ricordi quello che ti ho insegnato? “Tre passi avanti, due a sinistra, rimani sempre bene in vista, e non guardarli mai negli occhi, dì solo loro cose che san già...”(vd. Nota fondo pagina): questo è quello che vogliono, questo è ciò che tu devi. Tu sei una maschera, non dimenticartelo. Entra in scena, recita: il tuo mondo, il tuo credo sono tutti lì. Di ciò che sei, non deve importare a nessuno.»

Patavù: «Ma nemmeno a me? Ma cosa dici? Io non voglio! Io...io l'altro giorno mi sono guardato le mani: bianche, gelide, pallide, quasi non più le mie. Ho avvicinato il volto allo specchio, ho accarezzato il cerone, mi sono perso dentro il trucco: Iscanò, non sembravo più Patavù, ero Patavù: col suo sguardo, il suo sorriso, la sua malinconia, il suo fingersi allegro ad ogni costo. Ma io, io, dov'ero?»

Iscanò: «Ma tu sei Patavù, poiché lui è l'unica cosa che ti rende qualcuno, che ti fa essere! È questo il bello, non ti deve più importare nulla della tua ipotetica vecchia identità: truccati, cambiati, vestiti, e che tu rida, pianga, salti su quel palco, sarà Patavù a farlo per te. Lui ti ha legato a sé, ed ormai siete un'unica cosa. Sì, il teatro ti ha rapito, finalmente.»

Patavù: «Ma questo non è teatro Iscanò, è soltanto una stupida ed insulsa mascherata, non quello che volevo io!»

Iscanò: «No, Patavù, è questa l'unica realtà possibile: è la vita, quell'altra, quella esterna, ad essere soltanto fugace apparizione, finzione inetta, perché non c'è nulla di più reale delle nostre menzogne da commedianti. Rimaniamo appesi ad un filo, in equilibrio instabile su di un asse barcollante, e vediamo il mondo da lassù, lo crediamo vero mentre il cerone ci cola lentamente sulle guance.»

Patavù: «È tutto una follia, una stupida farsa: tu sei folle, io sono folle, noi tutti siamo folli: Iscanò, Patavù, la luna alla quale ci rivolgiamo ogni sera ridendo e piangendo, il pubblico che si emoziona ed applaude...perché?»

Iscanò: «Ascoltami, perché credi che tutti vengano a vederci ad ogni replica? Pensi di essere l'unico attore sulla scena insieme a me? Tutti sono coinvolti, nessuno escluso: dall'uomo di mezz'età seduto in platea, alla vecchia ereditiera nel palco riservato, sino a tutti quelli che stanno al piano più alto, nei posti economici. Ad ogni battuta, ci rispondono con applausi, risate, lacrime o fischi: il teatro ha rapito anche loro, come ha fatto con me, con te. Maschere, commedianti tristi, allegri oppure cupi, spettatori inconsolabili o vogliosi di risate; recitiamo, recitiam la nostra parte, siamo maschere reali, e finzione non è più: perché fuori il cielo è grigio, ci son nuvole più nere, non ci piace il mondo umano. Ci esprimiamo su di un palco, ci sfoghiamo sulle sedie: perché fuori il cielo è grigio, e le nuvole sono nere»

Patavù: «Quelle maschere siam noi...»

Iscanò: «Dai, preparati compagno, là fuori non vedono l'ora di iniziare con noi. Dobbiamo andare.»

Patavù: «È vero, non manchiamo che noi.»


E il cerone, ancora una volta, scese a coprire il volto, dando nuovamente vita a Patavù: prese per mano il suo compagno ed, insieme, i due salirono sul palco.




Nota: il verso è tratto da: R. Vecchioni, Teatro, contenuta ne Il re non si diverte, Warner, 1973, canzone nei confronti della quale il presente post è fortemente debitore.

sabato 18 settembre 2010

Senza un sé da ricordare (II)



Tragedia inconclusa in troppi atti


Atto secondo


Cercò di gettare a terra la maschera, di spegnere le luci e fuggire dal palco: ma fu vano. Il pubblico pareva ormai annoiato di tutta quella insulsa ed idiota commedia degli equivoci che da troppe serate andava in replica; anzi, qualcuno incominciava addirittura a lamentarsi con voce decisa ed arrabbiata: ma non c'era niente da fare, perché il sipario non si chiudeva, ad ogni battuta sembrava doverne seguire un'altra senza requie o riposo, in un continuo inanellarsi di disturbi psico-drammatici.

E la maschera, quella maschera, gli restava incollata al viso, tanto da non apparire più come maschera: e si fischiò, quella sera, anche lui, con tutta la sua forza, si trovò a piangere sul palco ed a tentare di domandare scusa alla platea ed ai palchi tutti per l'ingloriosa rappresentazione alla quale, da troppe sere (da sempre) assistevano:«E vorrei questa mia battuta finale, ma non ricordo: ah! Potesse essa tornare come un vecchio incantesimo e rendermi libero. Ma l'ho perduta, la manco sempre; e così, ad ogni mio errore, il regista manda avanti un altro comprimario a reggermi il gioco, ed io ci casco, e lo pizzico, lo provoco. E me ne pento: fuggono e scappano tutti.»

Si alzò una voce dalla platea:«Taci, bugiardo, falso ed ipocrita! La verità è che tu la battuta finale non solo non la ricordi, ma non l'hai mai saputa! Sei un Giuda, e quell'idea di te che ci avevi suggerito, altro non è che un enorme complesso di balle! Balle, balle, balle: fandonie lanciate come parole a chi, come noi, pensava di volerti ascoltare.»

Tremò, capì:«Io non so, io non voglio, non volevo, io non...io...io non so più: questa voce è ancora mia? E queste mani? La mia bocca, le mie labbra? Le parole che pronuncio chi le ha scritte? Forse io o qualcun altro? E quei gesti innaturali, quelle stupide moìne? Veramente, non mi credo, siete voi a veder giusto: quanto orrore dentro me, questa maschera non vale, se togliessi lei cosa mai potrei più amare? Forse un nulla universale, un epilogo banale, una lotta contro il male? Non lo sono, sono solo pochi scarti, messi insieme senza un senso: questo male, io lo so, è reale, vero, duro, nudo, crudo. Ma è banale: sono tutto ciò che sono, scemo ammasso di banale, di vittorie senza amore, di parole e non rispetto, non-affetto: questo ipocrita, questo stupido, questa carne, sono io. Non vi ho raccontato niente, vi ho tenuto qui, per cosa? Per sentir la vostra carne, ma poi l'anima? Non l'ho certo mai guardata: dite bene, che mi merito dei fischi, perché se un attore vale parla all'animo dell'uomo, cerca quello, gli dà un nome, lo fa piangere d'amore.. questo, invece, certo io non l'ho mai fatto: vi ho parlato, vi ho tenuto, ma eran solo trucchi, vecchi, stupidi e perversi; non vi ho mai considerato, ed al cuor non ho parlato. Perdonatemi, se mai amor in voi ho cercato, se quegli occhi non ho osservato, se non vi ho considerato: sono solo un commediante, rozzo, stupido e volgare. Oramai non servo a niente, alzo i tacchi e fuggo via: siate liberi, sereni, io di certo non sarò, ma è pur l'unico finale che si merita un banale. Senza amore, compassione, o un perdono universale.»


Il pubblico non fece una piega, l'attore finalmente si tolse la maschera: dietro, non c'era nulla, solo un vuoto di persona, senza un minimo di amore. Girò i tacchi, prese respiro e, come ogni sera, ricominciò la commedia di sempre e, con essa, quel pungolo nella carne che feriva e sanguinava.



Senza un sé da ricordare (I)


Tragedia inconclusa in troppi atti


Atto primo


Forte, deciso, quel pungolo nella carne tornava regolarmente a farsi sentire; come il primo giorno, la prima apparizione, la prima epifania di dolore, che lo avevano (finalmente) reso reale, vivente. Aveva sempre sentito una discrepanza tra la realtà dei fatti e quell'ideale di umanità lontana al quale, ogni tanto, di rado, aspirava. Anzi, a dire la verità, ciò che avrebbe voluto essere, da sempre, era proprio quell'ideale: di bontà, leggerezza, calma, quiete, un presente ed un futuro di braccia aperte ed occhi sgranati, buone parole ed azioni umane, finalmente umane.

Ma, e questo lo aveva letto, era solo un ideale: e l'ideale, come gli diceva sempre Emanuele, era destinato a rimanere inchiodato nella sua mente: la realtà non l'avrebbe mai nemmeno sfiorata.

E così era di nuovo dolore, nella carne, nel corpo, nello spirito: il buio, il male, l'oscurità, tutto, in sé stesso, sembrava destinato a sprofondare sempre più, in un eterno abisso del non ritorno. E c'era un peso, che fino ad allora non era mai riuscito a comprendere: ma proprio in quei giorni capì che, sino a quando avesse tentato di “comprenderlo”, non sarebbe riuscito a pervenire ad una soluzione. Bisognava vivere quel peso fino in fondo, come qualcosa di proprio, inaggirabile ed allo stesso tempo inenarrabile: guardarlo in viso, capirne l'angoscia del non senso e, allo stesso tempo, la realtà senza appelli.

E fu così: in un pomeriggio, senza che nulla potesse preannunciarlo, lo vide. Bastarono pochi gesti, e vide quel peso, lo sentì, lo visse come proprio: era lui quel peso, era la sua persona, ciò che egli era, la sua angoscia ed il suo male gettato in viso a chi gli stava attorno. Finalmente iniziò a dare un senso ed una direzione a quel continuo e costante tremore di gambe, a quell'infinito ed eterno aggirarsi inquieto intorno alla vita senza mai avere l'occasione di coglierla ed impadronirsene: era lui il male, lui la responsabilità di tutto quello che, lui l'origine e l'autore di ogni infelicità propria ed altrui. Si richiuse in sé stesso, e comprese di essere buio: era buio, non solo assenza, ma vero e proprio rifiuto di luce, della luce che avrebbe potuto costantemente essere, e che, regolarmente, rifiutava per gettarsi nelle sue sterili ed anzi, a volte, deleterie mani di stupido attoruncolo da quattro soldi. Sì, perché altro non era che quel triste commediante, impegnato davanti ad un folto pubblico, nella sterile e vuota farsa della sua insincerità.

domenica 5 settembre 2010

Vuoto al centro


Tutto il grigio
non pensava ai miei colori
ora cupi, muti, foschi

Al passaggio del respiro
non sapevo la mia via (ora sola)
a segnare la vaghezza

È tremare sui miei piedi
che non rende gioia al freddo;
è che soli qui non rende.

Quelle orme, qui non vedo
quelle voci non ripeto
senza mani, mi disgrego

Prego, solo, non aspetto
piego qui, l'anima al vento

Se mi sporgo, non la sento

domenica 22 agosto 2010

Che diritti ho su di te?


Scappo via, hai detto un giorno.

Sai, quasi che ci hai preso: se era farti inseguire che volevi, quasi non ci sei riuscita.
Perché vai troppo veloce.
Se era farmi smettere di scrivere bene qui sopra, ecco, quello lo hai realizzato alla perfezione. Perchè questo, e quello che seguirà, sarà solo carta straccia, rifiuto da gettare nello scarto letterario della mia breve, seppur inutile, carriera.

E poi sai, sto in piedi per miracolo, mi reggo, cammino, mi appoggio. Mi guardo ogni tanto le mani, per vedere se sono ancora le mie; e non guardo più chi c'è al mio specchio, ho paura di riconoscermi. Sbatto distratto contro la gente che mi cammina a fianco: torno solo a casa, la sera, distratto e felice di non essere stato riconosciuto.

Che importa ormai della mia poesia, di istanti e vibrazioni gettati su litri e litri di inchiostro, del mio inutile e inutile scrivere dei versi senza voglia.
Raccogliessi i miei stracci, camminassi per altre strade, via da me stesso e dal male che sono, uccidessi in me la poesia, forse nemmeno me ne accorgerei.

Tu no di certo: saresti lontana, attenta a mille altri sguardi, immersa in mille altri mondi, ed ognuno di essi sarebbe migliore e più vero del mio povero orizzonte.

S.

domenica 27 giugno 2010

Clamori a mille andare


Chissà che mi pensavo, osservando attonito lo sferragliare inutile. Chissà poi cosa eri, e quali viaggi futili andavi a manovrare.

Mi son raccolto, stretto, dentro e intorno a me: ho fatto il vuoto a ciò che ero, scrutando a fondo le mie viscere. Ho visto fumi, istinti mal celati, infanzie mai giocate e vecchiaie mai temute. Mi son sentito abbattere, il vento e tanti ardori, violenti, forti, giocati sul confine tra il folle e il santo nuovo. La mano che teneva il passo dei miei anni si è fatta più lontana, e l'uomo arguto, che dentro me scrutava mille albori, mi guarda ormai nascosto.
Ho fatto il pugno chiuso, abbraccio a fondo vivere: o io o loro, decidi senza peso. E solo, vivo, cupo, ho declinato i giorni di un nuovo comandare, di un nuovo in me restare. La casa, ora, è vuota: non c'è chi aspetta sera per rendermi Felice, non c'è chi aspetta e spera un "da qui ho capito Nietszche".

---

Così, cammino senza posa le spiagge di un timore: clamori da lontano mi bagliano sul mare, le luci, silenziose, mi segnano le ore, e l'animo, profondo, mi sento naufragare. Non sono più lontano, da un luogo senza posto, da lune colorate di anelite speranze. Rischiare a lungo mare: più in basso, difficile raschiare, più in alto, un volo da provare.

Lo so, e non ci sono mani, e non ci sono voci: ma luci, a mezza costa, mi guidano le orme.


martedì 8 giugno 2010

Tienimi la mano, Ciccio.


Piperita Patty: Negli ultimi tempi mi sembra che tutto mi turbi...

Charlie Brown: Cosa intendi dire?

Piperita Patty: Tu cosa pensi che sia la sicurezza?

Charlie Brown: Sicurezza? La sicurezza è dormire sul sedile posteriore di un auto: quando sei piccolo e sei stato in qualche posto col papà e la mamma ed è notte, e stai tornando a casa in macchina, puoi dormire sul sedile posteriore...Non hai da preoccuparti di niente...il papà e la mamma sono seduti davanti, e si prendono loro tutte le preoccupazioni...si occupano loro di tutto...

Piperita Patty: Che bello!

Charlie Brown: Ma non dura! Improvvisamente ti trovi cresciuto e non può mai più essere così! Di colpo è finita, e non dormirai mai più sul sedile posteriore! Mai più!

Piperita Patty: Mai più?

Charlie Brown: Assolutamente mai più...

Piperita Patty: ...tienimi la mano Ciccio...

mercoledì 28 aprile 2010

Ma saison


"Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s'ouvraient tous le coeurs [...] Une soir, j'ai assis la Beauté sur mes genoux- Et je l'ai trouvée amère.- Et je l'ai injuriée. Je me suis armé contre la justice."


"...E Come ti sembrerà strano, quando non ci sarò più, ciò che hai passato. Quando non avrai più le mie braccia sotto il collo, nè il mio cuore per il tuo riposo, nè questa bocca sui tuoi occhi. Perché bisognerà che me ne vada, molto lontano, un giorno. E poi, bisogna che ne aiuti altri: è mio dovere."



(A. Rimbaud, Une saison en enfer)



Che abbia inizio la mia stagione, che abbi inizio qui, tra poco.

E basta, basta poesia.

domenica 11 aprile 2010

Esse est percipi


Vivere

Esistere


Muoversi, imporsi, urlare

Fermarsi, tacere, ascoltare


Immergersi nel turbinare di ciò accade


Aspettare, aspettare, aspettare.


Vivere è l'unire il sé all'altro, a ciò che, da fuori, potrebbe apparire "meglio": voci, colori, gesti, grida, risate, eventi. Un migliaio di vite colorate, unite a cercare di essere qualcosa: non la solitudine di una stanza, ma l'illusione di partecipare di un senso collettivo.



Esistere è comprendere l'importanza del sè: fermarsi a raccogliere ogni singolo respiro, metterlo in ordine dopo gli altri, imparare ad ascoltare ogni impercettibile rumore del corpo, a percepire ogni minimo movimento ed ogni sua conseguenza.


Vivere è turbinìo incessante di voci, parole, urla: concetti chiusi a vuoto, parole stese ad asciugare, illusioni di un Dio che non si muove, volontà di non comprendere, sfuggendo al sè che preme. Confusione, discorsi, moltitudine, mani, occhi, illusioni: nolontà, fuggire da sè stessi, immergendosi e così, nel nulla, confondendosi nel marasma: non essere sè stessi, averne paura sino al punto di rifiutarsi.


Esistere è raccoglimento in sè, silenzio, ogni singolo gesto che riacquista un senso: lo scorrere delle mani sulle pagine, il frusciare delle dita sui capelli, il respiro finalmente sentito e partecipato. La solitudine reale di una stanza vuota, una coperta stesa a mezza altezza: esistenza, piena, corporea.



Recede in te ipse: essere fondo a sè stessi, comprendersi, ri-prendersi, percepirsi e, solo così, essere.


Vivere è finto, illusorio, in bilico.


Esistere è reale, unico modo per non perdersi: percepirsi, percepire il sè, reale, corporeo ed, insieme, spirituale. L'unico vero.

domenica 4 aprile 2010

Ad ogni partenza un ritorno (IV)



Gli spietati salgono
sul treno e non ritornano
mai più, non sono come noi
falliti antichi eroi,
noi due che al binario salutiamo…

(Baustelle- Gli spietati)


Come abbiamo potuto non sapere, per così tanto tempo, nulla di ciò che era, e tuttavia sederci alla tavola di ogni cosa e persona incontrata sul cammino?

(A. Baricco, Emmaus)



Che stupido ragazzo, pensò. Già, ragazzo: tanto tempo prima, si faceva chiamare così. Ma era una vita fa: non proprio mesi, nemmeno un anno. Ma dentro, sì. Galassie, universi, reami di tempi e di fatti si erano affastellati nella sua testa, sino quasi a scoppiare senza lasciare tregua. Era stato "il" ragazzo: lui, perso dentro la Città, al caldo, al riparo dal male del mondo, rifugiato negli occhi di chi, nei gesti a metà che parevano pur simili a qualcosa di altro. Aveva sentito tutto ciò su di sè, dentro sè: per sè. Si era impossessato della vita, e, in pieno furor, l'aveva trascinata con sè a ballare sulle stelle.
Ma era bastato poco per capire che nulla, nulla, era mai stato come lui aveva pensato:

"Quegli occhi non c'erano, non eran per lui, le mani tese a cercare altri intrecci, le parole lanciate, ma non per raccoglier sussurri e promesse. Diverso: si era seduto all'incrocio di vite, aveva atteso speranze tradite, erano state illusioni proibite. Ma era stato albeggiare impaurito, solamente una stupida aurora ingiallita."

Era caduto, piombato: si trovava ormai solo, con il sé come unico amico. E non eran più cieli azzurri: li vedeva lontani, ormai muoversi senza un motivo, verso porti più cari e sicuri all'altrui sentimento.

[...]

Pochi passi, lenti: una direzione precisa, in quel girovagare, non era possibile trovarla. Scontrava volti, braccia, gambe, palazzi ed alte costruzioni che salivano su, dritte fino al cielo. Per tanto tempo aveva lasciato quelle cose sullo sfondo, considerandole alla stregua di semplice contorno del vivere: solo allora, in quel momento, iniziava ad osservarle con occhio più lucido ed attento. E, proprio allora, esse iniziarono ad apparire sotto una luce diversa: esistevano, palpitavano, partecipavano di quel mondo che, fino a pochi attimi prima, non sembrava nemmeno rientrare nei suoi pensieri.
Si fermò, lungo la via che attraversava il centro: mesi prima sarebbe stata solo una semplice via, simile, anzi uguale, a tutte le altre vie già incontrate in chissà quanti paesi, stranieri e non. Ma ora non più: il mondo, sì, doveva per forza essere il mondo quello che assaporava sulla propria pelle. Non ci aveva mai fatto caso: eppure, era sempre stato lì, lo aveva attorniato, sfiorato, cullato. Da sempre.
E lui aveva corso, ansimato, pensato, parlato, riso, gioito, pianto, disperato. Senza mai sapere di esser stato, da sempre, al centro di quel Tutto.

[...]

C'è un amore che mi lacera la carne, ed ancora tu lo sai.(*)


(*) Baustelle, Gli spietati


domenica 28 marzo 2010

a bird, now


Soltanto il vuoto di empie stanze.




Mai più speranze.

domenica 7 marzo 2010

Sabato stelle


"Il tempo di essere un equilibrista, e per entrare aprire una finestra. E mentre ho quattro piani sotto i piedi, tu, dal tuo letto, salti su e mi chiedi: -Che cosa fai sul filo?- -Io? Mi alleno.-"

(R. Vecchioni- Sabato stelle)



E' buffo, è buffo contare i mesi trascorsi a costruire, piano piano. Qualcosa. E' lungo e costa fatica prendere in mano il filo rosso della vita, fare attenzione che non si annodi, dipanarlo nel corso degli eventi che si incontrano lungo gli istanti.
Ed è un attimo perderlo di mano, farlo scappare e cadere, vederlo rotolare per terra senza la possibilità di impedirgli di ingarbugliarsi. Di nuovo, i nodi ritornano: fitti, densi, e con essi la voglia di farsi piccoli piccoli, di non cercare più (ancora una volta?) di mettersi lì con pazienza e snodarli uno per uno.


- Ti avevo insegnato tutto, per bene: riprendere le cose dall'inizio, farle scorrere piano piano tra le dita, essere lievi, danzare in punta di piedi per non infrangere quel meccanismo favoloso che era ciò che avevi. Iniziavi, piano piano, ad imparare. Ma sei caduto.

Sbum. Le gambe hanno ceduto, all'improvviso.



Come potrò? E chi glielo va a dire, che sono ancora quello che tentava di danzare e librarsi in aria? Non vedi, quanto ora io sia sgraziato? Non seguo più i passi, zoppico, inciampo, cado. Sono a terra, e tu?


Io?
Mi alleno.

sabato 27 febbraio 2010

Verrà l'estate


Ancora una volta, meglio lasciare parlare altri per me. Ancora una volta, meglio permettere agli altri di esprimere quel poco che c'è. Nel frattempo, aspettiamo.

Sempre ti aspetto

...


Verrà l'estate

sarà nel vento
nel fiato caldo dietro le persiane
nelle campagne gialle consumate
nelle strade vuote

Verrà l'estate
senza avvisare
Un treno lento che costeggia il mare
Sul marciapiede vuoto alla stazione
ti farai trovare

Sempre ti aspetto

Apro per te ogni finestra
respiro e l'aria e' fresca

Salterà i muri,
le cancellate
Starà nei pozzi, in fondo ai corridoi
E verrà a prenderti, a portarti fuori

Sempre ti aspetto
salvami stanco e infelice
Nell'aria la tua luce



(Verrà l'estate- Pacifico & Malika Ayane)









domenica 17 gennaio 2010

Per nascondere la fatica


I soli sono individui strani
con il gusto di sentirsi soli, fuori dagli schemi
non si sa bene cosa sono
forse ribelli, forse disertori
nella follia di oggi, i soli sono i nuovi pionieri.

I soli e le sole non hanno ideologie
a parte una strana avversione per il numero due
senza nessuna appartenenza, senza pretesti o velleità sociali
senza nessuno a casa a frizionarli con unguenti coniugali.

Ai soli non si addice l'intimità della famiglia
magari solo un po' d'amore quando ne hanno voglia
un attimo di smarrimento, un improvviso senso d'allegria
allenarsi a sorridere, per nascondere la fatica
soli, vivere da soli
soli, uomini e donne soli.

I soli si annusano tra loro
sono così bravi a crearsi intorno un senso di mistero
sono gli Humphrey Bogart dell'amore
sono gli ambulanti, son gli dèi del caso
i soli sono gli eroi del nuovo mondo coraggioso.

I soli e le sole ormai sono tanti
con quell'aria un po' da saggi, un po' da adolescenti
a volte pieni di energia, a volte tristi, fragili e depressi
i soli c’han l'orgoglio di bastare a se stessi.

Ai soli non si addice il quieto vivere sereno
qualche volta è una scelta, qualche volta un po' meno
aver bisogno di qualcuno, cercare un po' di compagnia
e poi vivere in due e scoprire che siamo tutti
soli, vivere da soli
soli, uomini e donne soli.

La solitudine non è malinconia
un uomo solo è sempre in buona compagnia.



(I Soli- G. Gaber)

domenica 10 gennaio 2010

Dell'inutile, parte prima


I libri pesavano: chili, tonnellate di nozioni completamente inutili. La mano tremava sul foglio, e le gambe, piano piano, incominciavano a non farsi più sentire.
Fu un attimo, e si trovò disteso, scollegato dal resto: non più libri, non più nozioni, non più fogli. Le righe si sovrapponevano, le parole ed i concetti si ingarbugliavano sempre più.

Non capiva.

Si trovò debole, si trovò indifeso: la testa, reclinata all'indietro, le braccia che non riuscivano più a sostenere quel peso. Cadde, lentamente.

"E la mente partiva lontana: lontana da lì, lontana ed altrove. Nevicava, da Siberia quel freddo. Una porta sbattuta, una strada coperta, ghiacciata. E una macchina andare. Qualche fiocco, il cappotto, una strada deserta, quei due sguardi a salutare. -Tanto tempo che aspetti?- -No, non ti preoccupare- Un locale deserto, poca birra alla spina. Così tante parole, così tanto due sguardi: quattro ore, un po' meno. Le parole distanti, le parole vicine, quegli sguardi aggrappati a crepare silenzi. Così tanto in quel poco. Bello, poi, bello. Così tanto. E non poco."

Si riprese, si alzò: era solo svenuto su quel libro. Eran solo ricordi; ma con essi, svaniva anche il resto: sguardi, parole, tutto. Di nuovo,il reale aveva presentato il suo conto, salato. Un conto di no, un conto di arrivederci, di "magari, poi, vedremo". Passate alla cassa, prendetevi il resto.

Riprese la penna, riprese quei fogli: rimise a studiare. Concetti, parole: inutili. Se non eran due sguardi, se non era quel tanto nel poco, era inutile.


Inutile.

mercoledì 6 gennaio 2010

Cin Cin



Alla nostra grazia
Nello scrivere
Versi senza forza
Al non vivere
Al nostro “per sempre”
E ai nostri “mai”
Alle dipendenze
Allo stile che ci rende
Noi
Io e te
Un futuro non c’è
Ma vedrai
Ci sarà
Cambierà
Parleremo anche noi
Io e te
Del futuro che c’è
Nelle mani che hai
Nel coraggio che ancora non ho
Se mi concentro
Il Brasile
Lo invento


...


Alle sigarette
Alla vaniglia
Alla meraviglia
Della solita vita maledetta
Che ti porterà
A Rio de Janeiro
Brindo ma credo soltanto a noi
Io e te
Un futuro non c’è
Ma vedrai
Ci sarà
Cambierà
Rideremo anche noi
Io e te
Del futuro che c’è
In questi occhi che hai
Nel coraggio che ancora non ho
Ma sento dentro
Che un amore
Lo invento


(Baustelle- Cin Cin)

martedì 5 gennaio 2010

Mater Morbi


Casa dolce casa,

credevo che non l'avrei mai più rivista. Tutto mi sembra nuovo, ed allo stesso tempo familiare, diverso e uguale, estraneo ed intimo...Mi muovo con cautela, come se avessi paura che qualcosa in me si potesse di nuovo rompere, che qualche cucitura potesse riaprirsi.
Poi, lentamente, la vita riprende il suo corso normale, anche se, probabilmente, molto normale non lo sarà mai...

...Mi è capitato spesso di incrociare la mia strada con quella del male, e non ho mai esitato ad affrontarlo...Ma cosa succede quando il male è una parte di noi?
Ignorarlo, o rifiutarlo, è inutile e dannoso: l'unica cosa che possiamo fare è allargare le braccia e lasciare che ci scorra attraverso, sperando che non ci spinga contro gli scogli o ci travolga. Mater Morbi è un'amante spietata ed esigente, che ci accompagnerà per tutta la vita.

(Dylan Dog-Mater Morbi, 280)


Voi vorreste conoscere il segreto della morte,

ma come potrete scoprirlo se non cercandolo

nel cuore della vita?

Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno,

non può svelare il mistero della luce.

Se davvero volete conoscere lo spirito della morte,

spalancate il vostro cuore al corpo della vita.

poiché la vita e la morte sono una cosa sola,

come una sola cosa sono il fiume e il mare.


-K. Gibran-