martedì 21 settembre 2010

Senza un sé da ricordare (III)


Tragedia inconclusa in troppi atti


Atto terzo


Arrivò un po' trafelato, come al solito in ritardo: il pubblico in sala rumoreggiava da tempo, invocando a gran voce l'inizio del dramma. Ma la scena era vuota, e lo sarebbe stata per molto tempo ancora. Attraversò di corsa il corridoio, dietro le quinte, per cercare di guadagnare minuti preziosi; Iscanò era in camerino, a cercare di celare, come al solito, il volto dietro la sua maschera di cerone...



Iscanò: «Entra! Vieni dentro! Cambiati qui con me, che siamo già in ritardo! Allora, come ci si sente ad essere una stella? Riesci ancora a riconoscere i loro volti dal palcoscenico?»

Patavù: «Beh, ecco, insomma: non che lo voglia, non che lo cerchi, ma, vedi, sono lì, tutti, battono freneticamente le mani, appoggiano le loro schiene da medio-borghesi su quella porpora, ululano, strepitano, protestano...»

Iscanò: «Ma è questo quello che devi dare loro: ti ricordi quello che ti ho insegnato? “Tre passi avanti, due a sinistra, rimani sempre bene in vista, e non guardarli mai negli occhi, dì solo loro cose che san già...”(vd. Nota fondo pagina): questo è quello che vogliono, questo è ciò che tu devi. Tu sei una maschera, non dimenticartelo. Entra in scena, recita: il tuo mondo, il tuo credo sono tutti lì. Di ciò che sei, non deve importare a nessuno.»

Patavù: «Ma nemmeno a me? Ma cosa dici? Io non voglio! Io...io l'altro giorno mi sono guardato le mani: bianche, gelide, pallide, quasi non più le mie. Ho avvicinato il volto allo specchio, ho accarezzato il cerone, mi sono perso dentro il trucco: Iscanò, non sembravo più Patavù, ero Patavù: col suo sguardo, il suo sorriso, la sua malinconia, il suo fingersi allegro ad ogni costo. Ma io, io, dov'ero?»

Iscanò: «Ma tu sei Patavù, poiché lui è l'unica cosa che ti rende qualcuno, che ti fa essere! È questo il bello, non ti deve più importare nulla della tua ipotetica vecchia identità: truccati, cambiati, vestiti, e che tu rida, pianga, salti su quel palco, sarà Patavù a farlo per te. Lui ti ha legato a sé, ed ormai siete un'unica cosa. Sì, il teatro ti ha rapito, finalmente.»

Patavù: «Ma questo non è teatro Iscanò, è soltanto una stupida ed insulsa mascherata, non quello che volevo io!»

Iscanò: «No, Patavù, è questa l'unica realtà possibile: è la vita, quell'altra, quella esterna, ad essere soltanto fugace apparizione, finzione inetta, perché non c'è nulla di più reale delle nostre menzogne da commedianti. Rimaniamo appesi ad un filo, in equilibrio instabile su di un asse barcollante, e vediamo il mondo da lassù, lo crediamo vero mentre il cerone ci cola lentamente sulle guance.»

Patavù: «È tutto una follia, una stupida farsa: tu sei folle, io sono folle, noi tutti siamo folli: Iscanò, Patavù, la luna alla quale ci rivolgiamo ogni sera ridendo e piangendo, il pubblico che si emoziona ed applaude...perché?»

Iscanò: «Ascoltami, perché credi che tutti vengano a vederci ad ogni replica? Pensi di essere l'unico attore sulla scena insieme a me? Tutti sono coinvolti, nessuno escluso: dall'uomo di mezz'età seduto in platea, alla vecchia ereditiera nel palco riservato, sino a tutti quelli che stanno al piano più alto, nei posti economici. Ad ogni battuta, ci rispondono con applausi, risate, lacrime o fischi: il teatro ha rapito anche loro, come ha fatto con me, con te. Maschere, commedianti tristi, allegri oppure cupi, spettatori inconsolabili o vogliosi di risate; recitiamo, recitiam la nostra parte, siamo maschere reali, e finzione non è più: perché fuori il cielo è grigio, ci son nuvole più nere, non ci piace il mondo umano. Ci esprimiamo su di un palco, ci sfoghiamo sulle sedie: perché fuori il cielo è grigio, e le nuvole sono nere»

Patavù: «Quelle maschere siam noi...»

Iscanò: «Dai, preparati compagno, là fuori non vedono l'ora di iniziare con noi. Dobbiamo andare.»

Patavù: «È vero, non manchiamo che noi.»


E il cerone, ancora una volta, scese a coprire il volto, dando nuovamente vita a Patavù: prese per mano il suo compagno ed, insieme, i due salirono sul palco.




Nota: il verso è tratto da: R. Vecchioni, Teatro, contenuta ne Il re non si diverte, Warner, 1973, canzone nei confronti della quale il presente post è fortemente debitore.

sabato 18 settembre 2010

Senza un sé da ricordare (II)



Tragedia inconclusa in troppi atti


Atto secondo


Cercò di gettare a terra la maschera, di spegnere le luci e fuggire dal palco: ma fu vano. Il pubblico pareva ormai annoiato di tutta quella insulsa ed idiota commedia degli equivoci che da troppe serate andava in replica; anzi, qualcuno incominciava addirittura a lamentarsi con voce decisa ed arrabbiata: ma non c'era niente da fare, perché il sipario non si chiudeva, ad ogni battuta sembrava doverne seguire un'altra senza requie o riposo, in un continuo inanellarsi di disturbi psico-drammatici.

E la maschera, quella maschera, gli restava incollata al viso, tanto da non apparire più come maschera: e si fischiò, quella sera, anche lui, con tutta la sua forza, si trovò a piangere sul palco ed a tentare di domandare scusa alla platea ed ai palchi tutti per l'ingloriosa rappresentazione alla quale, da troppe sere (da sempre) assistevano:«E vorrei questa mia battuta finale, ma non ricordo: ah! Potesse essa tornare come un vecchio incantesimo e rendermi libero. Ma l'ho perduta, la manco sempre; e così, ad ogni mio errore, il regista manda avanti un altro comprimario a reggermi il gioco, ed io ci casco, e lo pizzico, lo provoco. E me ne pento: fuggono e scappano tutti.»

Si alzò una voce dalla platea:«Taci, bugiardo, falso ed ipocrita! La verità è che tu la battuta finale non solo non la ricordi, ma non l'hai mai saputa! Sei un Giuda, e quell'idea di te che ci avevi suggerito, altro non è che un enorme complesso di balle! Balle, balle, balle: fandonie lanciate come parole a chi, come noi, pensava di volerti ascoltare.»

Tremò, capì:«Io non so, io non voglio, non volevo, io non...io...io non so più: questa voce è ancora mia? E queste mani? La mia bocca, le mie labbra? Le parole che pronuncio chi le ha scritte? Forse io o qualcun altro? E quei gesti innaturali, quelle stupide moìne? Veramente, non mi credo, siete voi a veder giusto: quanto orrore dentro me, questa maschera non vale, se togliessi lei cosa mai potrei più amare? Forse un nulla universale, un epilogo banale, una lotta contro il male? Non lo sono, sono solo pochi scarti, messi insieme senza un senso: questo male, io lo so, è reale, vero, duro, nudo, crudo. Ma è banale: sono tutto ciò che sono, scemo ammasso di banale, di vittorie senza amore, di parole e non rispetto, non-affetto: questo ipocrita, questo stupido, questa carne, sono io. Non vi ho raccontato niente, vi ho tenuto qui, per cosa? Per sentir la vostra carne, ma poi l'anima? Non l'ho certo mai guardata: dite bene, che mi merito dei fischi, perché se un attore vale parla all'animo dell'uomo, cerca quello, gli dà un nome, lo fa piangere d'amore.. questo, invece, certo io non l'ho mai fatto: vi ho parlato, vi ho tenuto, ma eran solo trucchi, vecchi, stupidi e perversi; non vi ho mai considerato, ed al cuor non ho parlato. Perdonatemi, se mai amor in voi ho cercato, se quegli occhi non ho osservato, se non vi ho considerato: sono solo un commediante, rozzo, stupido e volgare. Oramai non servo a niente, alzo i tacchi e fuggo via: siate liberi, sereni, io di certo non sarò, ma è pur l'unico finale che si merita un banale. Senza amore, compassione, o un perdono universale.»


Il pubblico non fece una piega, l'attore finalmente si tolse la maschera: dietro, non c'era nulla, solo un vuoto di persona, senza un minimo di amore. Girò i tacchi, prese respiro e, come ogni sera, ricominciò la commedia di sempre e, con essa, quel pungolo nella carne che feriva e sanguinava.



Senza un sé da ricordare (I)


Tragedia inconclusa in troppi atti


Atto primo


Forte, deciso, quel pungolo nella carne tornava regolarmente a farsi sentire; come il primo giorno, la prima apparizione, la prima epifania di dolore, che lo avevano (finalmente) reso reale, vivente. Aveva sempre sentito una discrepanza tra la realtà dei fatti e quell'ideale di umanità lontana al quale, ogni tanto, di rado, aspirava. Anzi, a dire la verità, ciò che avrebbe voluto essere, da sempre, era proprio quell'ideale: di bontà, leggerezza, calma, quiete, un presente ed un futuro di braccia aperte ed occhi sgranati, buone parole ed azioni umane, finalmente umane.

Ma, e questo lo aveva letto, era solo un ideale: e l'ideale, come gli diceva sempre Emanuele, era destinato a rimanere inchiodato nella sua mente: la realtà non l'avrebbe mai nemmeno sfiorata.

E così era di nuovo dolore, nella carne, nel corpo, nello spirito: il buio, il male, l'oscurità, tutto, in sé stesso, sembrava destinato a sprofondare sempre più, in un eterno abisso del non ritorno. E c'era un peso, che fino ad allora non era mai riuscito a comprendere: ma proprio in quei giorni capì che, sino a quando avesse tentato di “comprenderlo”, non sarebbe riuscito a pervenire ad una soluzione. Bisognava vivere quel peso fino in fondo, come qualcosa di proprio, inaggirabile ed allo stesso tempo inenarrabile: guardarlo in viso, capirne l'angoscia del non senso e, allo stesso tempo, la realtà senza appelli.

E fu così: in un pomeriggio, senza che nulla potesse preannunciarlo, lo vide. Bastarono pochi gesti, e vide quel peso, lo sentì, lo visse come proprio: era lui quel peso, era la sua persona, ciò che egli era, la sua angoscia ed il suo male gettato in viso a chi gli stava attorno. Finalmente iniziò a dare un senso ed una direzione a quel continuo e costante tremore di gambe, a quell'infinito ed eterno aggirarsi inquieto intorno alla vita senza mai avere l'occasione di coglierla ed impadronirsene: era lui il male, lui la responsabilità di tutto quello che, lui l'origine e l'autore di ogni infelicità propria ed altrui. Si richiuse in sé stesso, e comprese di essere buio: era buio, non solo assenza, ma vero e proprio rifiuto di luce, della luce che avrebbe potuto costantemente essere, e che, regolarmente, rifiutava per gettarsi nelle sue sterili ed anzi, a volte, deleterie mani di stupido attoruncolo da quattro soldi. Sì, perché altro non era che quel triste commediante, impegnato davanti ad un folto pubblico, nella sterile e vuota farsa della sua insincerità.

domenica 5 settembre 2010

Vuoto al centro


Tutto il grigio
non pensava ai miei colori
ora cupi, muti, foschi

Al passaggio del respiro
non sapevo la mia via (ora sola)
a segnare la vaghezza

È tremare sui miei piedi
che non rende gioia al freddo;
è che soli qui non rende.

Quelle orme, qui non vedo
quelle voci non ripeto
senza mani, mi disgrego

Prego, solo, non aspetto
piego qui, l'anima al vento

Se mi sporgo, non la sento