mercoledì 17 agosto 2011

Lacrimosa


Era già in scena da tempo, e si accesero le luci. Intorno, il palcoscenico di sempre, l'applauso del pubblico ansioso di nuovi numeri, gli sguardi di tutti. Sorrise, raccolse l'ovazione: portava sul viso il solito cerone, quello sputo di quattro dita di bianco a celare lo scalpitare della vita sottostante, ed un rosso pallido a creare gote e naso.

Davanti, aveva le solite sfere: il suo numero consisteva nell'entrare nella più grande, quella trasparente, e far roteare la più piccola, quella rossa, lungo le pareti interne della prima. Uno, due, tre, e il grande numero da circo iniziava: come presa dal rotolare lungo un improvvisato piano inclinato, la piccola palla si muoveva ad ogni suo comando. In realtà, sembrava che a lui bastasse dare la prima spinta e la sfera faceva il resto, schizzando lungo tutte le direzioni, senza mai staccarsi dalle pareti di quella più grande. Scivolava in alto per poi tornare subito all'ingiù, passando tra le sue magre gambe. Solitamente, la gente guardava stupefatta il fenomeno, osservando con sorpresa lui, il piccolo giocoliere, farsi passare la sfera attorno e governarla con una sicurezza ed una precisione mai viste prima. Ad ogni cenno, essa si muoveva, cambiando improvvisamente direzione: e c'era qualcuno che giurava di averlo addirittura visto spostarla con la sola direzione degli occhi.

Ma il meglio doveva ancora venire: pochi istanti infatti ed iniziò la danza, con i due corpi pronti ad intrecciarsi, a sfiorarsi avvicinandosi piano piano, come quelli di due amanti ancora alle prime armi e timidi nel contatto, per poi separarsi violentemente prendendo direzioni opposte, quasi presi da brusche accelerazioni lungo piani opposti. Non c'era musica, ma i due sembravano seguire una particolare coreografia studiata appositamente per il numero: e, a stare in silenzio, sembrava quasi di udirla, quella musica, come provocata dal movimento. Lieve armonia di silenzio, sussurri e cambi di direzione attorno alla linea di due vite, l'una umana e l'altra no.

Intorno, silenziosa, l'altra sfera: trasparente, chiusa, enorme, a muoversi sul pavimento, a stridere sull'attrito, a rimanere aggrappata al suolo, a contenere l'incantevole danza: e lui non ne toccava le pareti interne, quasi intimorito da un ipotetico contatto. Ma ciò che era davvero ipnotizzante era lo scorrere della pallina rossa su quelle pareti: volava, volteggiava, sfiorandole da lontano, che quasi sembrava non le toccasse. Eppure il contatto c'era.

Il numero finì, e con esso parve terminare anche la musica: l'acrobata uscì dal suo guscio di gomma e, inchinandosi, raccolse l'applauso della platea. Uscì dal palco, prese la via dei camerini e, piano piano, cercò di togliersi il cerone dal viso: e pianse, come tutte le sere, come dopo tutti i numeri. Perché lui quella pallina non la governava, non lo aveva mai fatto: era lei, al contrario, a decidere in che direzione andare, dove sbattere, a quale velocità spostarsi lungo le pareti. Era partita all'improvviso anni prima, durante una stupida esercitazione pomeridiana, e non accennava ad arrestarsi. E lui, il bravo giocoliere, si trovava totalmente in balìa di quella sfera.

La guardava, la schivava, e le rare volte che tentava di cambiarne il percorso e la curvatura, essa sembrava quasi divertirsi a non ascoltare i suoi comandi. Vecchia palla impazzita, lanciatasi ad una velocità folle lungo le pareti curve di un mondo chiuso su sé stesso, stupido affastellarsi di sterzate, accelerazioni e brusco frenare nella contingenza di una stupida esposizione al pubblico.

Quel piccolo uomo tremava sempre a pensare allo spettacolo successivo, al riaccendersi delle luci: perché tutti pensavano fosse lui il vero protagonista, l'autore del numero, l'interprete principale di quanto avveniva sulla scena, padrone assoluto del proprio destino. Ma era lei invece, la piccola pallina rossa, a decidere. Tutto. Da quale lato gettarsi, quando, e se, incominciare a roteare, e soprattutto dove terminare la propria folle corsa: perché un giorno, vicino o lontano, si sarebbe fermata, nel bel mezzo dello spettacolo, rallentando dapprima lentamente per poi staccarsi improvvisamente dalle pareti interne e cadere rovinosamente. E lui, con lei, al suolo, il viso ormai spento, la luce degli occhi già assente, caduto per sempre a raccogliere l'ultimo ingiusto applauso, a sentire l'ovazione degli astanti, alzatisi in piedi per salutare l'ultima apparizione di un assurdo giocoliere.


FINE

mercoledì 11 maggio 2011

Bianco


«Fisso il soffitto bianco: lo guardo, serio, mentre la testa continua a dolere ed a ricordarmi la tristezza, malinconica compagna di viaggio.

Bianca.

Me la immagino così, un giorno, la vita: senza distinzioni, linee, interruzioni o discontinuità di sorta. Un unico grande bianco, come un sabato pomeriggio, un letto appena rifatto, un lungo abbraccio di madre, due lacrime di sera.»


C'è un limite, invalicabile, che segna le nostre esistenze: tutto il vivere non è altro che un continuo lanciarci su di esso, un'inutile volontà di immaginarlo passaggio per un altrove del noi. Corriamo, ansimiamo, leggiamo, urliamo, facciamo l'amore, tutto nell'illusione che esso si tolga, che cessi di essere spavento e vertigine; ci terrorizza l'idea di doverlo pensare proprio come tale, di doverlo ammettere come nostro.
Ma ogni volta che lo tocchiamo, ne veniamo ricacciati indietro, scaraventati sul noi stessi che siamo, sulle paure, le ansie ed il nulla che ci portiamo cucito addosso. Quel limite ci spinge al punto di partenza, con tanta più forza quanto più lunga era stata la rincorsa presa: ed è lì che braccia, gambe, muscoli, nervi e cuore si paralizzano, colti da improvviso terrore. Ci troviamo finalmente finiti, finalmente bloccati nel poco che siamo: ed allora piangiamo ed urliamo, tentiamo con forza e stracciamo le vesti che prima indossavamo da umani.
Ma lì rimaniamo, perché di più proprio non possiamo: quel limite siamo noi, siamo il nostro eterno finire, il continuo rimbalzare contro le nostre pareti interne, l'infinito disperare di progetti andati a vuoto e di salti a piedi uniti sul nulla.

«Mi giro su di un fianco, e torno a fissare quel muro, così bianco. Mi guarda, aspetta: alzo un dito per toccarlo. E torno indietro verso di me

giovedì 5 maggio 2011

Sacroprofano


«Testimoni inutili di quel tempo, dell'abbattere del sole, del frugare in questo mondo: siamo stati uniti, tutti intorno al nostro centro. Siam passato, e lontano più non sento.»


C'era quel muro, giallo, pulito, tirato a nuovo e lucido, pronto a raccogliere le nostre schiene e le nostre pallonate. Era lì, bastava solo guardarlo per farsi passare la voglia di essere altrove. La costruzione non era niente di che, diciamo la verità. Media periferia, odore di nuova urbanizzazione e tanfo di strutture da anni sessanta, scale-metallo-vetri-a-caso-un-po'-ovunque. E cemento, dio quanto cemento: sembrava ne avessero lanciato una quantità tendente all'infinito dall'altro capo del mondo, e che tale colata non tendesse mai a finire. Ne sentivi l'odore dappertutto: e, se ti entrava dentro, poi non ti lasciava più. Specie se ci cascavi sopra.

E poi, di nuovo il muro: bello, largo, giallo. Come una mamma, a raccogliere le nostre pallonate, ad attutire i nostri spintoni, a giocar di sponda con l'una o l'altra squadra, a seconda di non si sa che cosa, forse in nome di un'arrogante trasgressione di qualsiasi legge fisica.

E c'eravamo noi, tutti in cerchio: chi guardava in aria, chi già fissava negli occhi qualcuno, chi si cercava nella tasche per esibire al mondo i propri colori, chi semplicemente stava lì, ad aspettare. Perché aspettavamo: cosa, non capivamo ancora. Ma sapevamo che prima o poi, in quel dannato cubo di cemento, sarebbero venuti a prenderci per portarci mano nella mano intorno al mondo. Pensavamo, credevamo, scalpitavamo: lanciavamo i nostri vent'anni a raffiche di pallonate contro le sponde del campo, gridavamo il nostro sentirci soli e persi lungo le fasce, abbracciavamo le nostre ignare esistenze grigie le une contro le altre. E finimmo per incontrarci sul serio, per cacciare via quel vuoto, colorando la nostra adolescenza di seconda fascia e dimenticando le grida furenti dei nostri coetanei, rimaste a ricordarci di quanto noi, e solo noi, fossimo dei dannati perdenti.Il muro stava lì, ci fissava, prendeva le nostre pallonate, frenava le discese sulla fascia, si sporcava di suole e scarpate più o meno involontarie, testimone inconsapevole del nostro unirci, metronomo perfetto del nostro fuggire l'angoscia.

Ora quel muro non c'è più: al suo posto una parete logora, calcinacci cadenti ed i resti di un tempo forse mai trascorso, forse buttato via. Il grigiore di giornate troppo piovose e di leggi cadute giù dal cielo a filo di piombo lo hanno stancato, rovinato, segnato per sempre. E, con lui, siamo stati noi a scomparire: le braccia incrociate in segno di resa, gli occhi chiusi al cuore altrui. Qualcuno ogni tanto lo senti ancora passare di lì, con in mano una borsa nera ed in tasca il passaporto per un futuro pronto di famiglia fresca e lavoro incravattato, qualcun altro semplicemente si è perduto, fagocitato nuovamente dal buio di sé stesso. Come quel muro, crollato sotto i colpi del sole, della fatica e di chi stava lì, ad aspettare pazientemente che implodessimo in noi stessi.



«Siamo un attimo, esplosione di mille stelle, tentativi di afferrare un senso: ci guardiamo dentro, e siamo già passati.»