mercoledì 11 maggio 2011

Bianco


«Fisso il soffitto bianco: lo guardo, serio, mentre la testa continua a dolere ed a ricordarmi la tristezza, malinconica compagna di viaggio.

Bianca.

Me la immagino così, un giorno, la vita: senza distinzioni, linee, interruzioni o discontinuità di sorta. Un unico grande bianco, come un sabato pomeriggio, un letto appena rifatto, un lungo abbraccio di madre, due lacrime di sera.»


C'è un limite, invalicabile, che segna le nostre esistenze: tutto il vivere non è altro che un continuo lanciarci su di esso, un'inutile volontà di immaginarlo passaggio per un altrove del noi. Corriamo, ansimiamo, leggiamo, urliamo, facciamo l'amore, tutto nell'illusione che esso si tolga, che cessi di essere spavento e vertigine; ci terrorizza l'idea di doverlo pensare proprio come tale, di doverlo ammettere come nostro.
Ma ogni volta che lo tocchiamo, ne veniamo ricacciati indietro, scaraventati sul noi stessi che siamo, sulle paure, le ansie ed il nulla che ci portiamo cucito addosso. Quel limite ci spinge al punto di partenza, con tanta più forza quanto più lunga era stata la rincorsa presa: ed è lì che braccia, gambe, muscoli, nervi e cuore si paralizzano, colti da improvviso terrore. Ci troviamo finalmente finiti, finalmente bloccati nel poco che siamo: ed allora piangiamo ed urliamo, tentiamo con forza e stracciamo le vesti che prima indossavamo da umani.
Ma lì rimaniamo, perché di più proprio non possiamo: quel limite siamo noi, siamo il nostro eterno finire, il continuo rimbalzare contro le nostre pareti interne, l'infinito disperare di progetti andati a vuoto e di salti a piedi uniti sul nulla.

«Mi giro su di un fianco, e torno a fissare quel muro, così bianco. Mi guarda, aspetta: alzo un dito per toccarlo. E torno indietro verso di me

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